Quel sabato sera era abbastanza giù di morale. Raramente
si sono visti sprazzi di allegria sul suo volto, ma quella sera era
particolarmente afflitto. Gioacchino fu cresciuto dai suoi genitori a suon di
insulti e umiliazioni. Viveva nel rancore e nella rabbia sin da bambino. Poco
più di una decina d’anni fa’ andò via di casa. Adesso era un trentacinquenne
che viveva solo in uno squallido monolocale di periferia. Per vivere faceva
l’operaio; lavorava per una ditta di traslochi. Col suo stipendio a malapena
sopravviveva, a stento riusciva a far la spesa e a pagare l’affitto e le
bollette. Nonostante queste difficoltà economiche, cercava di non farsi mai
mancare una bottiglia di buon whisky e qualche sigaro, sempre utili in quei momenti
di maggiore sconforto.
Indifferentemente lavorava,
faceva il suo dovere, ma quelle volte in cui il suo datore di lavoro lo
trattava come una bestia, difficilmente gli riusciva facile fare l’automa.
Tuttavia per non rischiare di andare a dormire sotto qualche ponte, resisteva
alle umiliazioni, alle quali era comunque abituato.
Aveva perennemente sul viso
un’espressione schifata, disgustata da questa vita, dalla sua vita.
Ogni tanto si sfogava su un sacco
per pugili che aveva appeso al soffitto.
Quel pomeriggio dormì e si rialzò
stordito. Cenò con qualche scatoletta. Poi si rimise a letto a guardare la
televisione. Non c’era nulla di interessante come ogni sabato sera, come
ogni sera.
Allora decise di sfogliare una
riviste osé, ma dopo qualche minuto la riposò, annoiato, sul comodino.
In passato qualche volta si
andava a fare una birra con qualche collega, ma erano ormai anni che lavorava
solamente, diventando apatico ad ogni forma di svago in compagnia di altra
gente. Un po’ perché tutti quelli che conosceva avevano messo su famiglia, un
po’ perché la voglia di non vedere nessuno dopo il lavoro aveva avuto il
sopravvento negli anni.
E adesso se ne restava lì,
disteso su un letto eternamente sfatto, a guardare il soffitto e a contare le
macchie di umidità. Lì, abulico, immobile. Fermo ad attendere che quel
temporaneo viaggio della vita terminasse. Ad attendere la morte come via di
fuga, ad attendere il suo destino come un pluriergastolano.
Ad un tratto, si alzò e andò ad
accomodarsi nella zona giorno, poco più in là di dov’era.
Uscì la bottiglia del whisky,
prese un bicchiere, appoggiò tutto sul sudicio tavolo e si sedette su una
disagevole sedia. Si riempì il primo bicchiere. Lo sorseggiò. Si fermò poi ad
osservarlo. Nella stanza il silenzio regnava. Una luce gialla, opaca, provava
ad illuminare. Una formica passeggiava sul tavolo, prendendolo per una piazza.
Su di essa, Gioacchino, ci versò un po’ di whisky. Continuò imperterrita nel
suo percorso, seppur con qualche difficoltà nell’uscire da quel laghetto
alcolico. Gioacchino riprese a bere, osservando la formica che si allontanava
lemme lemme.
L’uomo si riempì un secondo
bicchiere e se lo scolò a sua volta.
Andò in bagno e dopo aver
pisciato, mentre si lavava le mani, si guardò nel piccolo specchio pieno di
aloni. Mormorò: “Ammazza quanto sei brutto…”
Uscito dal cesso, andò in cerca di un sigaro ed una volta
trovato, se lo accese con una lunga boccata. Una folta nebbia avvolse il suo
sguardo spento. Se ne stava in piedi e fumava rilassato augurandosi un tumore.
Il sigaro che si accese non era un mozzicone, ma poco ci mancava. Iniziò a
camminare per la stanza, spargendo cenere. Iniziò ad assalirlo una sensazione
di noia ed insoddisfazione. Non sapeva nemmeno lui di cosa avesse bisogno. Non
era voglia di scopare. Era da tempo che non nutriva particolari desideri. Ci fu
un periodo che si ammazzava di seghe e si fece tutte le mercenarie della zona,
ma poi si stufò anche di quei passatempi. Non aveva fame e non aveva sete. E
non aveva voglia di vedere e parlare con nessuno. Si stava annoiando, ma non
voleva porre rimedio a quello stato d’animo. Lavorare, seppur lo facesse con
indifferenza, senza particolari entusiasmi, gli piaceva, perché facendo
qualcosa, evitava la noia. Tornava a casa con piacere dopo il lavoro, poiché la
stanchezza accumulata, gli procurava una certa soddisfazione e poteva starsene
nella sua apatia e nella sua solitudine con gioia, poiché comunque stava
facendo qualcosa, ossia, si stava riposando, stava recuperando le forze come
una batteria sottocarica.
Nel fine settimana era riposato e
quel suo stato di isolamento a cui comunque teneva molto, gli creava tuttavia
un lieve fastidio. Proprio come quando un insetto cammina sulla pelle di un
uomo che non si accorge che un essere lo sta usando come tappeto rosso. Così
era il fastidio che provava in quelle ore libere, solitamente dedicate alla
famiglia e agli amici. Gioacchino non aveva né famiglia, né amici. I suoi unici
rapporti umani, erano circoscritti ai soli ambiti lavorativi. E gli piacevano
quei rapporti fatti di solidarietà, unione e complicità che aveva con i
colleghi. Un po’ meno gli piacevano i rapporti col suo titolare, ma spesso non
gli dava molto peso; l’importante per lui è che pagasse e che fosse puntuale
nel farlo.
Terminò il sigaro, ma prima di
spegnerlo per gettarlo, ustionò a morte una formica.
Non sapendo più cosa fare, si
gratto le chiappe, spense la luce e si coricò, pur sapendo che per qualche ora
ancora non avrebbe chiuso occhio.
Francesco Favia
domenica 6 aprile 2008 ore 16:07
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Racconto breve, quasi una fotografia
RispondiEliminaIl dramma della solitudine, in breve, in righe di ordinaria follia
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