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martedì 6 dicembre 2011

Storia di un amore sanguinante (abbozzo)

Venerdì 4 novembre 2005, 21.50.18 (data d'inizio stesura)

Francesco Favia, autore
Se ne stava seduto lì, su una sedia. Gomiti sul tavolo, al collo uno strofinaccio. E se ne stava lì, davanti ad un televisore acceso. Un televisore di fronte a lui e alla sua sacra tavola. Se ne stava lì, da solo, ad inzuppare cozze in un bicchiere d’aceto e a farle sparire con disgustosi  rumori labiali. Un telegiornale locale parlava di cronaca nera.
Una coppa di mitili, un bicchiere d’aceto, una damigiana di vino con la quale si sbrodolava e una pistola a tamburo: questi elementi apparecchiavano la tavola sacra, la tavola sacra di Francesco Della Miseria.
Arrogante, schivo, iroso, Francesco Della Miseria era noto come Ciccìll U’matt per la sua terribile violenza che esplodeva spesso nel pieno di una apparente quiete atmosfera; oppure lo chiamavano U’liòn, per quel grande tatuaggio del re della foresta che decorava il suo grosso tricipite sinistro. Aveva, di fatto, un bel fisico muscoloso. Si allenava e tirava di boxe in una palestra in periferia.
Viveva in una città bagnata da un mare ricco di storia, dove i pescatori riempivano le reti di pesce e storia, storia e pesci; ricco di animali con pinne, branchie e lische che fanno gola ai ristoratori ed ai suoi clienti, alle massaie ed ai professionisti ed a tutti quelli che fanno la spesa; e ricco di antichi pezzi che farebbero gola agli archeologi ed ai collezionisti.
Una zona del mondo dove devi camminare per strada con la faccia incazzata, se non vuoi che la gente si incazzi con te. E questo trentenne, appartenente alla famiglia Della Miseria, camminava con la faccia incazzata, di certo, non perché temesse di essere aggredito. Era davvero incazzato. Una rabbia repressa, tramandata dai suoi miserabili avi. E per questo andava in palestra. Per scaricare la sua collera innata su un sacco o su un povero disgraziato. Si sfogava così. Cercava di non farsi ulteriori nemici. Sapeva che nemici, ben mimetizzati tra gli amici, c’erano già di per sé. Non voleva aumentare il numero di questa nicchia per via del suo pessimo carattere. O meglio, per la sua difficoltà a tollerare i comportamenti altrui. Chi più, chi meno, possedeva qualcosa, qualche atteggiamento che lo infastidiva. Non solo chi lo circondava, lo assecondava per timore, per pseudo rispetto, per non aver problemi, ma doveva anche far ben attenzione a come muoversi e come parlare per non far scattare un attacco omicida da parte di quel psicopatico. E Ciccillo un po’ era consapevole dei suoi istinti animaleschi. Era come quei pitt-bull o quei galli che vengono stuzzicati dagli uomini per mesi, per poi far esplodere la loro rabbia sempre più repressa e sempre più aizzata da schifosissime braccia pelose di hijos de puta, in combattimenti con altri loro simili istigati alla violenza. La vita lo aveva così stuzzicato che aveva sempre voglia di menar le mani. Ed era un portento. L’allenatore della palestra che frequentava gli aveva sempre chiesto di partecipare a degli incontri ufficiali. Begnamino Losurdo, l’allenatore, credeva che sarebbe potuto arrivare a combattere per il titolo nazionale, se non addirittura continentale, della categoria dei pesi medi. Francesco Della Miseria gli rispondeva sempre che aveva troppo da fare per prepararsi seriamente per degli incontri e che non poteva allontanarsi dalla città, perché doveva essere sempre presente, presente per controllare e gestire i suoi affari illeciti. Illeciti non lo diceva, lo sottintendeva.    


Francesco Della Miseria ricorda ancora quando con suo padre, nel periodo del fermo biologico, andava su un porticciolo, una insenatura fuori città, nella quale ondeggiavano onde, gabbiani e paranze di una cooperativa di pescatori, a pescare salipci. Li vendevano ad un negozio di articoli da pesca, nel quale venivano rivenduti come esche. Erano piccoli esseri natanti, pesciolini che si nutrivano anche di carne morta. Per pescarli i due, padre e figlio, legavano al centro di grossi retini da pesca, dei pesci morti, pesci più grossi di questi salipci . E quest’esca funzionava. Dunque non erano che piccoli sciacalli marini, paragonabili ai vermi e ai microrganismi che nel sottosuolo divorano la nostra carne morta, esseri che decompongono per vivere. Il destino per questi animali era segnato per gran parte di loro, per gran parte degli abitanti di quelle acque. Quando i retini venivano tirati su con una cordicella, tra le variopinte alghe che colmavano quelle reti, ci si trovava granchi, granchietti, vermi lunghi, corti, sottili o spessi, colorati di un verde brillante, pronti a mimetizzarsi con la flora marina, o scuri come scarafaggi acquatici, comunque qualsiasi specie di essere viscido, strisciante sul ventre o su delle miserabili zampette.
All’epoca Ciccìll era poco più di un ragazzo, aveva la barba lunga, ma non era Hemingway. Non pescava pescespada lunghi tre metri come quel grande personaggio della letteratura del Novecento. Non si faceva fotografare con la sua preda, non mostrava la fierezza che aveva quel premio Nobel di essere quello che era. Egli pescava prede di pochi centimetri. Non pescava per divertimento. Pescava per non fare la fame, per non fare la fame nel periodo del fermo biologico, perché lo Stato non avrebbe risarcito gli umili pescatori nel giro di un mese o poco più. Lo Stato se la prendeva comoda, perché lo Stato è lo Stato.
Ciccìll pescava. Pescava sereno dopotutto. Contento di stare a fianco a suo padre. Contento della felicità di suo padre per averlo vicino. Contento della loro umiltà, fiero della loro umiltà. Fiero della loro umiltà. Fiero di non essere in quel lido adiacente al porticciolo, dove si scorgeva qualche ombrellone. Fiero di fare un mestiere da vero uomo. Un vero uomo come quelle delle storie da marinai, delle leggende sul mare, storie e leggende in cui si narra di uomini veri che hanno avvistato sirene e mostri marini o di vecchi che lottano contro la natura, ma dove la natura ha la meglio come  su quel povero pescatore cubano che catturò un grosso marlin e cercò di salvare la sua preda dall'assalto dei pescecani; leggenda tramandata da nonno a nipote, da padre in figlio, da fratello a fratello, da amico ad a amico in quel di Cuba e che un certo scrittore la pennellò con la sua macchina da scrivere, realizzando la miglior storia che abbia mai potuto realizzare, beccandosi un premio che sarebbe dovuto andare simbolicamente ad uno di quegli umili pescatori cubani, che s’ammazzano di fatica sotto il sole e per via di quell’Astro, vitale per il nostro pianeta, dimostrano vent’anni in più della loro reale età e che sono analfabeti e non potrebbero nemmeno sognarsi di vincere quel premio.


Suo padre, stanco della povertà che avvolgeva lui e chi lo aveva preceduto, iniziò a farsi qualche soldo in più trasportando sulle imbarcazioni su cui si guadagnava il pane, merce per conto di certa brava gente. Lentamente diventò anch’egli una brava persona rispettabile e si comprò un peschereccio, poi due, cinque, sei ed adesso tutti i pescatori lavoravano per questo grande armatore.
La famiglia Della Miseria deteneva un ricco traffico marittimo di armi e droga e comandava la città con altre brave famiglie.
Ciccìll U’ Liòn era il più pericoloso esponente di quella malavita locale che commerciava, se così vogliamo dire, con mezzo mondo. Con sé aveva sempre uno sguardo perennemente torvo, un revolver e una croce d’oro appesa ad una spessa catena d’oro portata al collo. Non credeva a nessuno e a niente, tanto meno a Dio ed i preti gli stavano sulle palle. Portava al collo quella croce perché era un caro ricordo, gliela regalò sua madre, scomparsa dopo una grave malattia. Forse anche la perdita della madre poteva essere sintomo di quella sua rabbia. Resta il fatto che comunque chiamare quell’uomo malvagio sarebbe stato un complimento.
Odiava la gente. Delle donne amava solo il fisico, ovviamente se erano ben messe. Odiava la gente, però non si può dire che si divertisse ad ammazzare, tuttavia far fuori qualcuno non gli faceva né caldo, né freddo; e questo non è roba da poco.


Sapeva che era alla sua corte per i suoi soldi, come sapeva che i suoi scagnozzi erano ai suoi ordini per il suo potere.
Samantah era una delle donne di Francesco Della Miseria. Questa prosperosa ventenne mediterranea, sapeva ben recitare la parte dell’innamorata. Lei, in fondo era la classica tipa che s’innamora di chiunque la trattasse male, ma, forse, le piaceva essere la donna di uno potente, di uno di cui bisogna avere timore e  comunque l’amore con lei non aveva mai avuto niente a che fare.
“Chi è al telefono? Con chi stai parlando?”
“Stai zitta!” rispose innervosito Ciccìll a Samantah. “Si, sto arrivando.”
“Dove vai?” interrogava quella venere ammantata dal solo lenzuolo.
“Da una.” Rispose il guappo mentre si alzava dal letto. La tipa iniziò ad urlare, a mettere in atto la solita sceneggiata di gelosia. Non scenata di gelosia, ma una vera e propria sceneggiata. Non era gelosia d’amore, era gelosia possessiva, egoistica: solo lei doveva essere la donna del boss.
E lui si rivestì noncurante delle grida.


Giù, ad aspettarlo c’era un suo compare. Non doveva andare da nessuna donna. Aveva un lavoretto da fare.
Su una bella cabriolet sfrecciava su una strada secondaria, tra gli uliveti, tra i raggi del sole filtrati dai rami. Si respirava una magnifica aria primaverile.
“Pinucc’ passami le sigarette.”
E Pinuccio al suo fianco gli passò il pacchetto e spinse il pulsante dell’accendisigari. Quando fu caldo, lo estrasse e accese la sigaretta che il suo capo stava facendo penzolare tra le labbra.
“Questo scimunito si è permesso di dire…”
“Si…” e Pinuccio lo assecondava.
Dopo quasi un’ora arrivarono in un casolare in piena campagna.
Su un masso c’era un tizio seduto. Il tizio che parlava a sproposito. Di fianco a lui, due brutti ceffi lo tenevano d’occhio, o meglio, lo guardavano storto. Non c’era bisogno di controllarlo, non sarebbe mai scappato, perché altrimenti si sarebbe trovato una pallottola nella schiena.
Senza dir nulla, U’ liòn gli si avvicinò e lo colpì violentemente con uno sganassone.
“Guaglio’ tu parli assai, lo sai? O no?” Disse U’ Liòn e quello zitto. Zitto, fermo, immobile. Un mutismo e un’ immobilità che accompagnavano quel suo sguardo terrorizzato.
Aveva fatto uno sgarro, l’avrebbe pagato. Pagato caro. 
Ciccìll lo prese per i capelli e lo trascinò di forza qualche metro più in là, vicino alla merda di una mucca o di un cavallo.
Ciccìll gli mise la canna della sua pistola in bocca e quello iniziò a piagnucolare. Ciccìll pensò poi di rompergli i denti col calcio della pistola, ma poi cambiò di nuovo idea, tornando all’idea grottesca della merda. Di forza gli ficcò la testa in quella merda fresca gridando: “MANGIA, MANGIAMERDA, MANGIA!”
“Che puzza… guagliò, andiamocene.” Disse Ciccìll ai suoi ragazzi. E sgommarono tra la polvere, lui e Pinuccio sulla cabriolet e gli altri due su un piccolo fuoristrada.
A quel tizio gli andò di lusso. Quell’uomo commise uno sgarro e lì, in certi contesti, si muore per molto poco. Dopo quella abbuffata, avrà sicuramente imparato la lezione e comunque avrebbe avuto modo di digerire, visto che avrebbe dovuto camminare un bel po’ prima di raggiungere un centro abitato.   

Quell’uomo era davvero un pazzo. Non scherzo. Era da rinchiudere.
Una sera d’estate con la sua cricca era andato in un grand hotel, dove si cenava e si ballava su quel suo grande terrazzo. Tutti lo conoscevano e lo rispettavano per rispetto o per timore. Dal personale dell’ hotel, a tutta la gente che era lì per divertirsi.
Con Ciccìll, oltre ai suoi compagni di malavita, c’era la sua donna, o almeno quella che si credeva la sua donna. Ciccìll quella sera era sereno. Voleva rilassarsi, non pensare a niente. Ed era anche abbastanza cordiale, affabile. Bastò un gesto per cambiare il suo umore di colpo. Un’azione incosciente. Non l’avesse mai fatto. Se si fosse stata ferma, avrebbe avuto ancora il suo bel nasino intatto. Ma quella stronza di Samantah con la sua stupida gelosia e la sua mania di protagonismo si diede la zappa sui piedi. Sulla terrazza, nella zona dove si ballava, c’erano dei tavolini. La gente dopo aver cenato, si spostava in quell’area. U’ Liòn e i suoi amici con le loro donne, si erano adunati attorno a tre tavolini che avevano unito. C’era molta gente lì, e le sedie ed i tavoli non bastavano. Non erano in tanti a ballare; erano molti di più quelli che rimanevano seduti col drink tra le dita a godersi un po’ d’aria fresca. Vicino a Ciccìll c’era una sedia vuota. Una ragazza gli aveva chiesto cortesemente se la poteva prendere. E Ciccìll, per cortesia e non per galanteria, le aveva sorriso e le aveva detto semplicemente “si”. Quell’altra pazza isterica di Samantah partì con uno schiaffo all’indirizzo della faccia di Ciccìll. A parte il fatto che quel gesto spazzava via il rispetto che nutrivano i suoi uomini e tutta la gente che era lì, a Ciccìll partiva letteralmente il lume della ragione (se sempre ne possedesse uno) se lo si toccava. U’Liòn sferrò un pugno in pieno viso a quella disgraziata. La musica pompava, esplodeva, e continuava nel suo turbinio, mentre tutti si erano pietrificati. E quella strillava, sbraitava, agitava le braccia, tremava tutta, mentre da quella maschera di sangue, lentamente gocce rosse s’insinuavano nel decolté.
“Vaffanculo, brutta troia” disse sommessamente il pazzo “Mi hai rovinato la serata.” E se ne andò, solo. Andò via, forse in bagno, forse al bancone per un whisky, comunque se ne andò, incazzato. Incazzato e fiero in un certo senso, con un alone di dignità che lo seguiva. Non stava scappando, non andava via con la coda fra le gambe. Stava andando via per calmarsi. Si doveva calmare e non perché doveva dare conto alla gente, lui non doveva dare conto a nessuno. Andava via per calmarsi, bere qualcosa, un po’ come contare fino a dieci prima di agire, ciò che avrebbe dovuto fare poco prima. Andava via per calmarsi, perché quelle grida isteriche soffocate dalla musica snervante e gli sguardi insopportabili di quella gente, insopportabilmente ipocrita, in giacchetta e abiti da sera lo facevano diventare ancora più pazzo. Andava via per calmarsi, perché altrimenti avrebbe fatto un buco in testa a qualcuno.

Qualche sera dopo, Ciccìll, uscito da un bar, era diretto verso la sua macchina. Aveva bevuto una birra e ascoltato le solite cazzate da bar. Si avviava tranquillo. Era a pochi metri dalla sua auto quando udì il suo nome. Urlarono ad una maniera a dir poco cafona e alquanto minacciosa “CICCìLL!!!!”.


<<<<<<<<<<<<<<<< parte mancante >>>>>>>>>>>>>>>>>>>


Era al bancone del Caffè Marittimo. Tra le dita il mozzicone di un toscano, mentre i polpastrelli della stessa mano reggevano un whisky. Erano le sei e tre quarti del mattino. Un tiepido mattino di maggio. Era in giro da qualche ora. Era stato ad un centinaio di chilometri più a sud, sempre su quella costa. Era stato a dirigere le operazioni di sbarco di un drappello di clandestini.
Poggiò il bicchiere vuoto su una banconota da dieci euro, comprendente la mancia. Salutò il barista e lasciò dietro di sé, sul bancone, banconota e bicchiere. Una volta fuori, si avviò verso la sua cabriolet, disinvolto nel suo gessato. Portava il colletto e altri due bottoni sbottonati. Peli neri al vento e collana e crocifisso ostentati con indifferenza. Occhiali scuri, mozzicone di sigaro ad un angolo della bocca, capelli ingommati da gel e barba di tre, quattro giorni. Aprì la portiera, si mise comodo e con un radiogiornale in sottofondo costeggiò il lungomare. Gli piaceva farsi accarezzare dalla brezza marina del mattino primaverile. I gabbiani starnazzavano e rasentavano l’acqua. Il sole timidamente si innalzava. Il cielo limpidamente azzurro, lo accoglieva con calma. E con calma Della Miseria cavalcava l’asfalto a bordo del suo giocattolino. Con assoluta pace interiore si godeva quell’aria e si dirigeva verso il molo.
I suoi pescherecci non c’erano. Avevano mollato gli ormeggi qualche ora prima. La giornata del pescatore inizia presto. Qualche peschereccio era attraccato. Erano alcuni di quelli più grandi. Questi navigano per settimane, dunque questi qui ormeggiati, o meglio chi ci lavora sopra, o erano a riposo o si stavano preparando per salpare a giorni. E si poteva vedere qualche lupo di pare cucire una rete o dare una mano di pittura.
Ciccillo si fermò vicino una di queste imbarcazioni. Scese dall’auto e gridò con voce profonda, un po’ rauca: “Ahuèèè!”
“Uè Ciccìll!” rispose uno di quei lavoratori. Un tipo tracagnotto, coi capelli arruffati e la faccia da maniaco. Era a petto nudo, tutto abbronzato, e stava lavorando sodo; risaltavano i muscoli delle braccia e si contraevano e allungavano, lasciando in secondo piano quella sgradevole pancia. Con un balzo felino Ciccìll passò dalla banchina all’imbarcazione.
“Come andiamo stamattina, caro Pasquale.”
“E come dobbiamo andare…” rispose quel pescatore. “Ora vieni da là?”
“Si.” Disse Ciccillo.  
“Com’è andata?”
“Tutto a posto.” Rispose Ciccillo. Poi prese a cercarsi addosso qualcosa. La trovò. Era una scatola di fiammiferi. Se ne accese uno. Avvicinò la fiamma al mozzicone, coprendola con la sua manona pelosa. Aspirò e fece un sacco di fumo e tanta puzza tipica del sigaro. Pasquale continuava a lavorare incessantemente. 

Francesco Favia

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