Venerdì 4 novembre 2005, 21.50.18 (data d'inizio stesura)
Se ne stava seduto lì, su una sedia. Gomiti sul
tavolo, al collo uno strofinaccio. E se ne stava lì, davanti ad un televisore
acceso. Un televisore di fronte a lui e alla sua sacra tavola. Se ne stava lì,
da solo, ad inzuppare cozze in un bicchiere d’aceto e a farle sparire con
disgustosi rumori labiali. Un telegiornale
locale parlava di cronaca nera.
![]() |
Francesco Favia, autore
|
Una coppa di mitili, un bicchiere d’aceto, una
damigiana di vino con la quale si sbrodolava e una pistola a tamburo: questi
elementi apparecchiavano la tavola sacra, la tavola sacra di Francesco Della
Miseria.
Arrogante, schivo, iroso, Francesco Della Miseria era noto
come Ciccìll U’matt per la sua terribile violenza che esplodeva spesso nel
pieno di una apparente quiete atmosfera; oppure lo chiamavano U’liòn, per quel
grande tatuaggio del re della foresta che decorava il suo grosso tricipite
sinistro. Aveva, di fatto, un bel fisico muscoloso. Si allenava e tirava di
boxe in una palestra in periferia.
Viveva in una città bagnata da un mare ricco di
storia, dove i pescatori riempivano le reti di pesce e storia, storia e pesci;
ricco di animali con pinne, branchie e lische che fanno gola ai ristoratori ed
ai suoi clienti, alle massaie ed ai professionisti ed a tutti quelli che fanno
la spesa; e ricco di antichi pezzi che farebbero gola agli archeologi ed ai
collezionisti.
Una zona del mondo dove devi camminare per strada con
la faccia incazzata, se non vuoi che la gente si incazzi con te. E questo
trentenne, appartenente alla famiglia Della Miseria, camminava con la faccia
incazzata, di certo, non perché temesse di essere aggredito. Era davvero
incazzato. Una rabbia repressa, tramandata dai suoi miserabili avi. E per
questo andava in palestra. Per scaricare la sua collera innata su un sacco o su
un povero disgraziato. Si sfogava così. Cercava di non farsi ulteriori nemici.
Sapeva che nemici, ben mimetizzati tra gli amici, c’erano già di per sé. Non
voleva aumentare il numero di questa nicchia per via del suo pessimo carattere.
O meglio, per la sua difficoltà a tollerare i comportamenti altrui. Chi più,
chi meno, possedeva qualcosa, qualche atteggiamento che lo infastidiva. Non
solo chi lo circondava, lo assecondava per timore, per pseudo rispetto, per non
aver problemi, ma doveva anche far ben attenzione a come muoversi e come
parlare per non far scattare un attacco omicida da parte di quel psicopatico. E
Ciccillo un po’ era consapevole dei suoi istinti animaleschi. Era come quei
pitt-bull o quei galli che vengono stuzzicati dagli uomini per mesi, per poi
far esplodere la loro rabbia sempre più repressa e sempre più aizzata da
schifosissime braccia pelose di hijos de puta, in combattimenti con altri loro
simili istigati alla violenza. La vita lo aveva così stuzzicato che aveva
sempre voglia di menar le mani. Ed era un portento. L’allenatore della palestra
che frequentava gli aveva sempre chiesto di partecipare a degli incontri
ufficiali. Begnamino Losurdo, l’allenatore, credeva che sarebbe potuto arrivare
a combattere per il titolo nazionale, se non addirittura continentale, della
categoria dei pesi medi. Francesco Della Miseria gli rispondeva sempre che
aveva troppo da fare per prepararsi seriamente per degli incontri e che non
poteva allontanarsi dalla città, perché doveva essere sempre presente, presente
per controllare e gestire i suoi affari illeciti. Illeciti non lo diceva, lo
sottintendeva.
Francesco Della Miseria ricorda ancora quando con suo
padre, nel periodo del fermo biologico, andava su un porticciolo, una
insenatura fuori città, nella quale ondeggiavano onde, gabbiani e paranze di
una cooperativa di pescatori, a pescare salipci. Li vendevano ad un
negozio di articoli da pesca, nel quale venivano rivenduti come esche. Erano
piccoli esseri natanti, pesciolini che si nutrivano anche di carne morta. Per
pescarli i due, padre e figlio, legavano al centro di grossi retini da pesca,
dei pesci morti, pesci più grossi di questi salipci . E quest’esca
funzionava. Dunque non erano che piccoli sciacalli marini, paragonabili ai
vermi e ai microrganismi che nel sottosuolo divorano la nostra carne morta,
esseri che decompongono per vivere. Il destino per questi animali era segnato
per gran parte di loro, per gran parte degli abitanti di quelle acque. Quando i
retini venivano tirati su con una cordicella, tra le variopinte alghe che
colmavano quelle reti, ci si trovava granchi, granchietti, vermi lunghi, corti,
sottili o spessi, colorati di un verde brillante, pronti a mimetizzarsi con la
flora marina, o scuri come scarafaggi acquatici, comunque qualsiasi specie di
essere viscido, strisciante sul ventre o su delle miserabili zampette.
All’epoca Ciccìll era poco più di un ragazzo, aveva
la barba lunga, ma non era Hemingway. Non pescava pescespada lunghi tre metri
come quel grande personaggio della letteratura del Novecento. Non si faceva
fotografare con la sua preda, non mostrava la fierezza che aveva quel premio Nobel
di essere quello che era. Egli pescava prede di pochi centimetri. Non pescava
per divertimento. Pescava per non fare la fame, per non fare la fame nel
periodo del fermo biologico, perché lo Stato non avrebbe risarcito gli umili
pescatori nel giro di un mese o poco più. Lo Stato se la prendeva comoda,
perché lo Stato è lo Stato.
Ciccìll pescava. Pescava sereno dopotutto. Contento
di stare a fianco a suo padre. Contento della felicità di suo padre per averlo
vicino. Contento della loro umiltà, fiero della loro umiltà. Fiero della loro
umiltà. Fiero di non essere in quel lido adiacente al porticciolo, dove si
scorgeva qualche ombrellone. Fiero di fare un mestiere da vero uomo. Un vero
uomo come quelle delle storie da marinai, delle leggende sul mare, storie e
leggende in cui si narra di uomini veri che hanno avvistato sirene e mostri
marini o di vecchi che lottano contro la natura, ma dove la natura ha la meglio
come su quel
povero pescatore cubano che catturò un grosso marlin e cercò di salvare la sua
preda dall'assalto dei pescecani; leggenda tramandata da nonno a nipote, da
padre in figlio, da fratello a fratello, da amico ad a amico in quel di Cuba e
che un certo scrittore la pennellò con la sua macchina da scrivere, realizzando
la miglior storia che abbia mai potuto realizzare, beccandosi un premio che
sarebbe dovuto andare simbolicamente ad uno di quegli umili pescatori cubani,
che s’ammazzano di fatica sotto il sole e per via di quell’Astro, vitale per il
nostro pianeta, dimostrano vent’anni in più della loro reale età e che sono
analfabeti e non potrebbero nemmeno sognarsi di vincere quel premio.
Suo padre, stanco della povertà che avvolgeva lui e
chi lo aveva preceduto, iniziò a farsi qualche soldo in più trasportando sulle
imbarcazioni su cui si guadagnava il pane, merce per conto di certa brava
gente. Lentamente diventò anch’egli una brava persona rispettabile e si comprò
un peschereccio, poi due, cinque, sei ed adesso tutti i pescatori lavoravano
per questo grande armatore.
La famiglia Della Miseria deteneva un ricco traffico
marittimo di armi e droga e comandava la città con altre brave famiglie.
Ciccìll U’ Liòn era il più pericoloso esponente di
quella malavita locale che commerciava, se così vogliamo dire, con mezzo mondo.
Con sé aveva sempre uno sguardo perennemente torvo, un revolver e una croce
d’oro appesa ad una spessa catena d’oro portata al collo. Non credeva a nessuno
e a niente, tanto meno a Dio ed i preti gli stavano sulle palle. Portava al
collo quella croce perché era un caro ricordo, gliela regalò sua madre,
scomparsa dopo una grave malattia. Forse anche la perdita della madre poteva
essere sintomo di quella sua rabbia. Resta il fatto che comunque chiamare
quell’uomo malvagio sarebbe stato un complimento.
Odiava la gente. Delle donne amava solo il fisico,
ovviamente se erano ben messe. Odiava la gente, però non si può dire che si
divertisse ad ammazzare, tuttavia far fuori qualcuno non gli faceva né caldo,
né freddo; e questo non è roba da poco.
Sapeva che era alla sua corte per i suoi soldi, come
sapeva che i suoi scagnozzi erano ai suoi ordini per il suo potere.
Samantah era una delle donne di Francesco Della
Miseria. Questa prosperosa ventenne mediterranea, sapeva ben recitare la parte
dell’innamorata. Lei, in fondo era la classica tipa che s’innamora di chiunque
la trattasse male, ma, forse, le piaceva essere la donna di uno potente, di uno
di cui bisogna avere timore e comunque
l’amore con lei non aveva mai avuto niente a che fare.
“Chi è al telefono? Con chi stai parlando?”
“Stai zitta!” rispose innervosito Ciccìll a Samantah.
“Si, sto arrivando.”
“Dove vai?” interrogava quella venere ammantata dal
solo lenzuolo.
“Da una.” Rispose il guappo mentre si alzava dal
letto. La tipa iniziò ad urlare, a mettere in atto la solita sceneggiata di
gelosia. Non scenata di gelosia, ma una vera e propria sceneggiata. Non era
gelosia d’amore, era gelosia possessiva, egoistica: solo lei doveva essere la
donna del boss.
E lui si rivestì noncurante delle grida.
Giù, ad aspettarlo c’era un suo compare. Non doveva
andare da nessuna donna. Aveva un lavoretto da fare.
Su una bella cabriolet sfrecciava su una strada
secondaria, tra gli uliveti, tra i raggi del sole filtrati dai rami. Si
respirava una magnifica aria primaverile.
“Pinucc’ passami le sigarette.”
E Pinuccio al suo fianco gli passò il pacchetto e
spinse il pulsante dell’accendisigari. Quando fu caldo, lo estrasse e accese la
sigaretta che il suo capo stava facendo penzolare tra le labbra.
“Questo scimunito si è permesso di dire…”
“Si…” e Pinuccio lo assecondava.
Dopo quasi un’ora arrivarono in un casolare in piena
campagna.
Su un masso c’era un tizio seduto. Il tizio che
parlava a sproposito. Di fianco a lui, due brutti ceffi lo tenevano d’occhio, o
meglio, lo guardavano storto. Non c’era bisogno di controllarlo, non sarebbe
mai scappato, perché altrimenti si sarebbe trovato una pallottola nella
schiena.
Senza dir nulla, U’ liòn gli si avvicinò e lo colpì
violentemente con uno sganassone.
“Guaglio’ tu parli assai, lo sai? O no?” Disse U’
Liòn e quello zitto. Zitto, fermo, immobile. Un mutismo e un’ immobilità che
accompagnavano quel suo sguardo terrorizzato.
Aveva fatto uno sgarro, l’avrebbe pagato. Pagato
caro.
Ciccìll lo prese per i capelli e lo trascinò di forza
qualche metro più in là, vicino alla merda di una mucca o di un cavallo.
Ciccìll gli mise la canna della sua pistola in bocca
e quello iniziò a piagnucolare. Ciccìll pensò poi di rompergli i denti col
calcio della pistola, ma poi cambiò di nuovo idea, tornando all’idea grottesca
della merda. Di forza gli ficcò la testa in quella merda fresca gridando:
“MANGIA, MANGIAMERDA, MANGIA!”
“Che puzza… guagliò, andiamocene.” Disse Ciccìll ai
suoi ragazzi. E sgommarono tra la polvere, lui e Pinuccio sulla cabriolet e gli
altri due su un piccolo fuoristrada.
A quel tizio gli andò di lusso. Quell’uomo commise
uno sgarro e lì, in certi contesti, si muore per molto poco. Dopo quella
abbuffata, avrà sicuramente imparato la lezione e comunque avrebbe avuto modo
di digerire, visto che avrebbe dovuto camminare un bel po’ prima di raggiungere
un centro abitato.
Quell’uomo era davvero un pazzo. Non scherzo. Era da
rinchiudere.
Una sera d’estate con la sua cricca era andato in un
grand hotel, dove si cenava e si ballava su quel suo grande terrazzo. Tutti lo
conoscevano e lo rispettavano per rispetto o per timore. Dal personale dell’
hotel, a tutta la gente che era lì per divertirsi.
Con Ciccìll, oltre ai suoi compagni di malavita,
c’era la sua donna, o almeno quella che si credeva la sua donna. Ciccìll quella
sera era sereno. Voleva rilassarsi, non pensare a niente. Ed era anche
abbastanza cordiale, affabile. Bastò un gesto per cambiare il suo umore di
colpo. Un’azione incosciente. Non l’avesse mai fatto. Se si fosse stata ferma, avrebbe
avuto ancora il suo bel nasino intatto. Ma quella stronza di Samantah con la
sua stupida gelosia e la sua mania di protagonismo si diede la zappa sui piedi.
Sulla terrazza, nella zona dove si ballava, c’erano dei tavolini. La gente dopo
aver cenato, si spostava in quell’area. U’ Liòn e i suoi amici con le loro
donne, si erano adunati attorno a tre tavolini che avevano unito. C’era molta
gente lì, e le sedie ed i tavoli non bastavano. Non erano in tanti a ballare;
erano molti di più quelli che rimanevano seduti col drink tra le dita a godersi
un po’ d’aria fresca. Vicino a Ciccìll c’era una sedia vuota. Una ragazza gli
aveva chiesto cortesemente se la poteva prendere. E Ciccìll, per cortesia e non
per galanteria, le aveva sorriso e le aveva detto semplicemente “si”.
Quell’altra pazza isterica di Samantah partì con uno schiaffo all’indirizzo
della faccia di Ciccìll. A parte il fatto che quel gesto spazzava via il
rispetto che nutrivano i suoi uomini e tutta la gente che era lì, a Ciccìll
partiva letteralmente il lume della ragione (se sempre ne possedesse uno) se lo
si toccava. U’Liòn sferrò un pugno in pieno viso a quella disgraziata. La
musica pompava, esplodeva, e continuava nel suo turbinio, mentre tutti si erano
pietrificati. E quella strillava, sbraitava, agitava le braccia, tremava tutta,
mentre da quella maschera di sangue, lentamente gocce rosse s’insinuavano nel
decolté.
“Vaffanculo, brutta troia” disse sommessamente il
pazzo “Mi hai rovinato la serata.” E se ne andò, solo. Andò via, forse in bagno,
forse al bancone per un whisky, comunque se ne andò, incazzato. Incazzato e
fiero in un certo senso, con un alone di dignità che lo seguiva. Non stava
scappando, non andava via con la coda fra le gambe. Stava andando via per
calmarsi. Si doveva calmare e non perché doveva dare conto alla gente, lui non
doveva dare conto a nessuno. Andava via per calmarsi, bere qualcosa, un po’
come contare fino a dieci prima di agire, ciò che avrebbe dovuto fare poco
prima. Andava via per calmarsi, perché quelle grida isteriche soffocate dalla
musica snervante e gli sguardi insopportabili di quella gente,
insopportabilmente ipocrita, in giacchetta e abiti da sera lo facevano
diventare ancora più pazzo. Andava via per calmarsi, perché altrimenti avrebbe
fatto un buco in testa a qualcuno.
Qualche sera dopo, Ciccìll, uscito da un bar, era
diretto verso la sua macchina. Aveva bevuto una birra e ascoltato le solite
cazzate da bar. Si avviava tranquillo. Era a pochi metri dalla sua auto quando
udì il suo nome. Urlarono ad una maniera a dir poco cafona e alquanto
minacciosa “CICCìLL!!!!”.
<<<<<<<<<<<<<<<< parte mancante >>>>>>>>>>>>>>>>>>>
Era al bancone del Caffè Marittimo. Tra le dita il
mozzicone di un toscano, mentre i polpastrelli della stessa mano reggevano un
whisky. Erano le sei e tre quarti del mattino. Un tiepido mattino di maggio.
Era in giro da qualche ora. Era stato ad un centinaio di chilometri più a sud,
sempre su quella costa. Era stato a dirigere le operazioni di sbarco di un
drappello di clandestini.
Poggiò il bicchiere vuoto su una banconota da dieci
euro, comprendente la mancia. Salutò il barista e lasciò dietro di sé, sul
bancone, banconota e bicchiere. Una volta fuori, si avviò verso la sua
cabriolet, disinvolto nel suo gessato. Portava il colletto e altri due bottoni
sbottonati. Peli neri al vento e collana e crocifisso ostentati con
indifferenza. Occhiali scuri, mozzicone di sigaro ad un angolo della bocca,
capelli ingommati da gel e barba di tre, quattro giorni. Aprì la portiera, si
mise comodo e con un radiogiornale in sottofondo costeggiò il lungomare. Gli
piaceva farsi accarezzare dalla brezza marina del mattino primaverile. I
gabbiani starnazzavano e rasentavano l’acqua. Il sole timidamente si innalzava.
Il cielo limpidamente azzurro, lo accoglieva con calma. E con calma Della
Miseria cavalcava l’asfalto a bordo del suo giocattolino. Con assoluta pace
interiore si godeva quell’aria e si dirigeva verso il molo.
I suoi pescherecci non c’erano. Avevano mollato gli
ormeggi qualche ora prima. La giornata del pescatore inizia presto. Qualche
peschereccio era attraccato. Erano alcuni di quelli più grandi. Questi navigano
per settimane, dunque questi qui ormeggiati, o meglio chi ci lavora sopra, o
erano a riposo o si stavano preparando per salpare a giorni. E si poteva vedere
qualche lupo di pare cucire una rete o dare una mano di pittura.
Ciccillo si fermò vicino una di queste imbarcazioni.
Scese dall’auto e gridò con voce profonda, un po’ rauca: “Ahuèèè!”
“Uè Ciccìll!” rispose uno di quei lavoratori. Un tipo
tracagnotto, coi capelli arruffati e la faccia da maniaco. Era a petto nudo,
tutto abbronzato, e stava lavorando sodo; risaltavano i muscoli delle braccia e
si contraevano e allungavano, lasciando in secondo piano quella sgradevole
pancia. Con un balzo felino Ciccìll passò dalla banchina all’imbarcazione.
“Come andiamo stamattina, caro Pasquale.”
“E come dobbiamo andare…” rispose quel pescatore.
“Ora vieni da là?”
“Si.” Disse Ciccillo.
“Com’è andata?”
“Tutto a posto.” Rispose Ciccillo. Poi prese a
cercarsi addosso qualcosa. La trovò. Era una scatola di fiammiferi. Se ne
accese uno. Avvicinò la fiamma al mozzicone, coprendola con la sua manona
pelosa. Aspirò e fece un sacco di fumo e tanta puzza tipica del sigaro.
Pasquale continuava a lavorare incessantemente.
Francesco Favia
© riproduzione riservata
© riproduzione riservata
Di' la tua, lascia un commento.
Ottimo, hai talento, complimenti.
RispondiEliminaGrazie di cuore :-)
RispondiElimina