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mercoledì 11 aprile 2012

Soggetti a vendetta

Da scugnizzi a scagnozzi pentiti


Peppino, Totuccio e Ninuccio se la facevano lì, tra via Pakistan e via Giamaica, in quel punto del quartiere ribattezzato “L’angolo dei teppisti”. Lì, su quel marciapiede, abbondavano le bottiglie vuote di birra nazionale e i tappi di esse sull’asfalto, cospicui, decoravano quell’area suburbana.
Bazzicavano “La cantina dello zio Tom”, una squallida enoteca, fatiscente copertura della criminalità organizzata. L’enoteca era situata in via Pakistan. La gestiva Giosuè U’ Pakistan, detto così in quanto nato e cresciuto in quella via, dove ogni tanto pioveva, poiché le massaie sui loro balconi mettevano i panni sgocciolanti ad asciugare.
Peppino, Totuccio e Ninuccio era dei grandi scansafatiche. Si arrangiavano spacciando ogni tanto e facendo saltuariamente qualche lavoretto per conto di Giosuè. La maggior parte del tempo, però lo impiegavano a scolar birre da tre quarti, grattandosi le gonfie pance e osservando scorrere la vita nel quartiere.
I tre non avevano nemmeno vent’anni e non avevano nemmeno la licenza media. Nonostante le loro frequentazioni, gli unici precedenti penali erano per aggressione ai professori della scuola media che frequentarono, conseguendo condanne per interruzione di pubblico servizio.
Nel quartiere si pavoneggiano coi ragazzini, vantandosi di rapine e risse allo stadio. Resta il fatto che non sono mai stati beccati per rapina e non si sono mai visti con lividi e lesioni causate da manganellate firmate dall’antisommossa.
Non avevano voglia nemmeno di intraprendere un’ascesa nel mondo malavitoso, ma quasi per inerzia avrebbero finito col diventare degli scagnozzi.
La loro sorte era segnata: sarebbero morti ammazzati per strada o in carcere.
Senza palle com’erano, non ci si stupisce che sarebbero diventati, dopo qualche anno, degli infami di questura.

Passarono vent’anni. Diventarono collaboratori di giustizia e cambiarono identità. E da non crederci, iniziarono anche a lavorare: si misero a fare gli operai in delle ditte del nord Italia.
Non si sposarono mai. Si persero di vista. Anche il quartiere non seppe mai che fine fecero. Girava voce che furono vittime della lupara bianca.
Sembrarono svaniti nel nulla, sembrò che nessuno seppe che fine avessero fatto, ma Il Pakistano sapeva. Aveva sempre sospettato. Da anni si trovava in un carcere di massima sicurezza, dove tuttavia era riuscito a suon di mazzette a portare avanti le sue personalissime indagini. Alla fine i suoi sospetti ebbero molte conferme. Giosuè il Pakistano incominciò a meditare vendetta.

Era un giorno di primavera quando Ninuccio apprese della morte di Totuccio. Lo riconobbe in foto, durante un servizio al telegiornale. Pur mostrando i segni del tempo, il viso non riuscì a lasciare indifferente Ninuccio. Subito gli sembrò famigliare e dopo una decina di minuti ebbe una folgorazione: Totuccio. Era lui. Era certo. Lo trovarono su una panchina con una siringa al braccio.
Iniziò a sudare freddo. Capì che fu scoperto e fu ammazzato. Certo poteva avere commesso qualche altro sgarro verso altra gente, magari slavi o rumeni. Oppure il cambio d’identità e l’esilio lo hanno portato alla depressione e indotto a drogarsi pesantemente. Balle! Sapeva che quelle congetture che iniziò a porsi, erano solo blandi tentativi per cercar di non perdere la testa.
Contattò lo sbirro che seguì sin dall’inizio le operazioni del programma di protezione. Fu tranquillizzato. Quello gli disse di restare calmo, che quello non era il suo amico e che non c’entrava niente con i delitti di mafia.
Un po’ si tranquillizzò e tornò alla vita di tutti i giorni con più serenità.
Tre giorni dopo però, mentre si recava al lavoro in auto, sentì al radiogiornale del ritrovamento sulle rive del fiume di un cadavere.
Non diede molta importanza alla notizia, sul lavoro poi non ci pensò proprio. Sulla strada del ritorno, nel solo accendere l’autoradio, gli tornò in mente quel fatto.
A casa, mentre consumava la sua cena, un panino con la mortadella, ascoltò con molta attenzione il telegiornale. Il corpo di quell’uomo sembrava, dai primi rilievi, che fosse stato trasportato in un secondo momento sul luogo del rinvenimento. L’identità non era stata accertata. Addosso non c’erano documenti ed il corpo si presentava pesantemente martoriato. Sembrava, per gli inquirenti, che fu pestavo da diverse persone con mazze e spranghe e picchiato fin quando non avesse smesso di respirare.
Non si sapeva se quello fosse Peppino, ma Ninuccio iniziò a sentirsi male. Fu preso da un’atroce ansia, da una feroce paranoia e da un’insistente tachicardia.
Pensava che quello era il corpo di Peppino e che lo avessero portato lì, nel comune dove viveva lui, per avvertirgli che adesso sarebbe toccato a lui.
Serrò tutte le finestre e mise dei mobili dietro la porta. La notte non riuscì a chiudere occhio. Il giorno dopo non andò al lavoro.
Dopo un paio di giorni fu telefonato dalla segretaria del suo titolare. Si scusò per non aver avvisato ed inventò una banale scusa per giustificarsi.
Il giorno dopo si recò al lavoro. Era agitatissimo. Non voleva assolutamente morire, ma stava andando incontro al suo destino.
Sovrapensiero non si fermò a uno stop. Un impetuoso suono di clacson lo destò, un bestione su ruote…
Erano le sette e trentadue del mattino quando un autotreno lo travolse.

 Francesco Favia

7 aprile ’08  ore 15:47

ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale



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